Il Fatto
Un lavoratore si insinuava al passivo di un fallimento.
Il Tribunale ammetteva solo parzialmente, rilevando che per una parte di trattava di somme trasferite al Fondo di tesoreria e quindi dovute dall’INPS.
Il lavoratore di opponeva e il Tribunale accoglieva l’opposizione valutando che la CIG in deroga è una ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro con integrazione salariale e che, non avendo detta integrazione natura previdenziale, l’accantonamento del relativo TFR è di spettanza del datore di lavoro.
Il fallimento ricorreva per cassazione.
Il Diritto
La corte ricorda che la Cassa integrazione in deroga, istituita dall'art. 2, comma 64, della Legge n. 92 del 2012, in quanto caso di sospensione totale o parziale in cui è riconosciuta l'integrazione salariale, rientra nella previsione del comma 3 dell'art. 2120 c.c., prevedendo un periodo di assenza dal lavoro con diritto alla retribuzione, eventualmente soddisfatto in tutto o in parte in forma previdenziale, che figura come periodo di retribuzione normale, anche se la stessa è conservata solo nei limiti di una aliquota percentuale.
Il pagamento della Cassa integrazione in deroga (CIGD) spetta, qualora il lavoratore non sia rioccupato alla cessazione del periodo alle dipendenze del datore di lavoro, al Fondo sociale per l'occupazione e la formazione presso il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali.
Ne consegue che, in caso di fallimento del datore di lavoro, il dipendente non ha diritto all'ammissione allo stato passivo del credito per le quote di TFR maturate in tale periodo, ma di quelle del periodo anteriore trasferite nel Fondo di Tesoreria, di cui non sia provato il versamento da parte del datore di lavoro.
Pertanto la lavoratrice è legittimata all'ammissione allo stato passivo del datore di lavoro fallito per le quote di TFR non versate al Fondo Tesoreria dello Stato gestito dall'INPS.
Poiché i giudici non si sono attenuti a tale principio, la corte accoglie il ricorso.
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