Commento
REATI FALLIMENTARI

Se gli amministratori non partecipano alla gestione della società perché estromessi, non rispondono del reato di bancarotta

di Studio tributario Gavioli & Associati | 18 Gennaio 2024
Se gli amministratori non partecipano alla gestione della società perché estromessi, non rispondono del reato di bancarotta

Se risulta provato che gli amministratori si erano attivati per adempiere ai loro doveri di vigilanza e controllo, ma che i loro tentativi erano rimasti scoraggiati a causa del comportamento del socio, non possono rispondere del reato di bancarotta; è quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 1152, del 10 gennaio 2024.

Il contenzioso penale

Con sentenza del novembre 2021, il Tribunale aveva condannato due soci per il reato di bancarotta fraudolenta documentale, in relazione ad una società di persone, fallita il 13 dicembre 2016.

Secondo la tesi dell’accusa gli imputati, in qualità di soci illimitatamente responsabili, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori della società, non avrebbero tenuto o comunque avrebbero sottratto le scritture contabili della società.

Con sentenza del dicembre 2022, la Corte di appello ha riformato la pronuncia di primo grado, riqualificando l’originaria imputazione nel reato di bancarotta documentale semplice.

Avverso la sentenza della Corte di appello, entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione facendo presente che la compagine sociale era composta da tre soci (titolari di identiche quote sociali); nel corso degli anni erano sorti forti conflitti tra gli imputati e il terzo socio; gli imputati avevano proposto lo scioglimento della società previa ripartizione degli utili; il socio si era opposto fermamente a tale richiesta e, a partire da quel momento, aveva assunto la gestione esclusiva della società, impedendo agli altri due soci qualsiasi accesso al cantiere e al luogo ove era archiviata la documentazione.
Gli imputati evidenziano che il socio non aveva fornito alcun riscontro alle numerose richieste, avanzate dagli imputati, di informazioni circa l’andamento dell’impresa e la documentazione contabile; fino a quando gli imputati avevano concretamente partecipato alla gestione dell’impresa, la contabilità risultava correttamente tenuta; solo a partire dal maggio 2012, momento in cui i due soci erano stati estromessi, nessun adempimento amministrativo contabile e fiscale risultava essere stato realizzato.

Bancarotta fraudolenta e bancarotta semplice nella Legge fallimentare

In materia di bancarotta fraudolenta, ai sensi dell’art. 216 l. fall., è punito con la reclusione da 3 a 10 anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore che:

  1. ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti;
  2. ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.

La stessa pena si applica all’imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal citato punto n. 1, ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili.

È punito con la reclusione da 1 a 5 anni il fallito che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione.

Salve le altre pene accessorie, di cui al Capo III, Titolo II, Libro I del Codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nell’art. 216 l. fall. importa per la durata di 10 anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi, presso qualsiasi impresa.

Ai sensi del successivo art. 217 l. fall., in materia di bancarotta semplice, è punito con la reclusione da 6 mesi a 2 anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore che, fuori dai casi preveduti nell’art. 216 l. fall.:

  1. ha fatto spese personali o per la famiglia eccessive rispetto alla sua condizione economica;
  2. ha consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti;
  3. ha compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento;
  4. ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa;
  5. non ha soddisfatto le obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare.

La stessa pena si applica al fallito che, durante i 3 anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento ovvero dall’inizio dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata, non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge o li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta.

Salve le altre pene accessorie di cui al Capo III, Titolo II, Libro I del Codice penale, la condanna importa l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a 2 anni.

La sentenza dei giudici di legittimità

Per i giudici di legittimità va rilevato che, dalle sentenze di merito, e, in particolare, da quella di primo grado, risulta che, a partire dall’anno 2012, gli imputati erano stati completamente estromessi dalla gestione della società ad opera dell’altro socio, condannato, per il reato di bancarotta documentale semplice, con sentenza definitiva, emessa all’esito di separato processo.

Dalle medesime sentenze emerge anche che i due imputati si erano attivati per tentare di adempiere agli obblighi su di loro gravanti, in ragione della qualifica da loro rivestita, inviando anche svariate lettere di diffida ai consulenti della società, all’altro socio e ai suoi legali.

La Corte di Appello, pur dando atto del fatto che gli odierni imputati erano stati completamente estromessi dalla gestione della società ad opera dell’altro socio, ha ritenuto che essi non fossero esenti da responsabilità per l’omessa tenuta delle scritture contabili, in virtù del mantenimento formale della carica, che imponeva loro di vigilare sulla condotta dell’altro socio e sulla regolare tenuta della contabilità.

Osservano i giudici di legittimità che la responsabilità dell’amministratore, che rivesta la sola carica formale, nasce dalla violazione dei doveri di vigilanza e di controllo che derivano dall’accettazione della carica, cui però va aggiunta la dimostrazione non solo astratta e presunta ma effettiva e concreta della consapevolezza dello stato delle scritture.

Ebbene, nel caso in esame, osserva la Cassazione, è risultato pacifico che gli imputati, nonostante i loro reiterati tentativi, non erano riusciti concretamente a ottenere le informazioni e la documentazione richieste al socio, al fine di ottemperare agli adempimenti previsti dalla legge.

Risulta, dunque, provato che gli imputati si erano attivati per adempiere ai loro doveri di vigilanza e controllo, ma che i loro tentativi erano rimasti frustrati a causa del comportamento del socio.

Per la Corte di Cassazione la sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata senza rinvio, poiché gli imputati devono essere assolti per non aver commesso il fatto.

Riferimenti normativi:

 

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