Commento
REATI TRIBUTARI

Non è sufficiente la fattura falsa per la condanna: è necessaria la prova della finalità dell’evasione

di Studio tributario Gavioli & Associati | 2 Novembre 2023
Non è sufficiente la fattura falsa per la condanna: è necessaria la prova della finalità dell’evasione

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 42497, del 18 ottobre 2023, ha accolto il ricorso di un imprenditore: non è sufficiente la fattura falsa per far scattare la condanna per l’imprenditore. Nella sentenza si afferma che il dolo specifico del reato di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti è che devono emergere elementi fattuali dimostrativi che l’autore materiale della condotta abbia consapevolmente e volontariamente preordinato l’emissione delle fatture per operazioni inesistenti anche per consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto.

Il contenzioso penale

Con la sentenza del gennaio 2022, la Corte di appello, ha riformato l’assoluzione pronunciata dal Tribunale nel giugno del giugno 2019, con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, ed ha condannato un imprenditore, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, alla pena di un anno e due mesi di reclusione per il reato ex art. 8, D.Lgs. n. 74/2000.

Tale norma prevede che è punito con la reclusione da quattro a otto anni chiunque, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

Ai fini dell’applicazione della disposizione suindicate, l’emissione o il rilascio di più fatture o documenti per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo di imposta si considera come un solo reato.

Se l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo d’imposta, è inferiore a centomila euro, si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.

Secondo l’imputazione l’imprenditore, quale titolare di un laboratorio per l’assemblaggio di capi di vestiario in pelle non dichiarato al Fisco, ha istigato e determinato il legale rappresentante di una società ad emettere, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, le fatture per operazioni soggettivamente inesistenti.

Avverso la sentenza sfavorevole l’imprenditore è ricorso in Cassazione.

Le motivazioni del ricorso in Cassazione

Il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per Cassazione avverso tale sentenza.

In particolare per l’imprenditore ricorrente la sentenza sarebbe viziata nella motivazione perché basata sulla sussistenza della sua volontà di favorire i terzi con l’emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti.

Dalle prove assunte in dibattimento risulterebbe che tutte le merci furono regolarmente fatturate e pagate dalla società e, poi, dagli acquirenti.

Le fatture erano rappresentative di operazioni tutte esistenti e, pertanto, non vi sarebbe la prova dell’elemento soggettivo, dell’inesistenza delle operazioni e dell’evasione fiscale, poiché emittente e destinatari avrebbero pagato le relative imposte.

La sentenza della Cassazione

Osservano i giudici di legittimità che il dolo specifico del reato di cui al D.Lgs. n. 74/2000, ex art. 8, prevede esplicitamente il compimento della condotta tipica: all’emissione delle fatture per operazioni inesistenti, si aggiunga la finalità di evasione, la cui realizzazione, però, non è necessaria ai fini della consumazione del reato.

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza (Cass. n. 16465 del 6 aprile 2011), in tema di dolo, la prova della volontà della commissione del reato è prevalentemente affidata, in mancanza di confessione, alla ricerca delle concrete circostanze che abbiano connotato l’azione e delle quali deve essere verificata la oggettiva idoneità a cagionare l’evento in base ad elementi di sicuro valore sintomatico, valutati sia singolarmente sia nella loro coordinazione.

La prova del dolo si ricava essenzialmente dagli elementi obiettivi del fatto, dalle concrete manifestazioni della condotta (Cass. n. 16465 del 6 aprile 2011).

Pertanto, anche nel caso del delitto D.Lgs. n. 74/2000, ex art. 8, devono emergere elementi fattuali dimostrativi che l’autore materiale della condotta abbia consapevolmente e volontariamente preordinato l’emissione delle fatture per operazioni inesistenti (anche) per consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto.

La giurisprudenza di legittimità ha ribadito che il fine di consentire l’evasione altrui idoneo ad integrare il dolo specifico del reato in oggetto ben può essere accompagnato da altre finalità, anche di carattere personale; la Corte di Cassazione ha valorizzato, nel caso esaminato, l’emissione a favore di beneficiario del tutto sconosciuto di una fattura per operazioni inesistenti da parte di soggetto dotato di partita IVA, emissione adottata in cambio di un illecito compenso del tutto proporzionato rispetto al vantaggio fiscale che l’emissione della fattura avrebbe provocato (cfr. Cass. n. 44449, del 17 settembre 2015).

Il Tribunale ha indicato una serie di elementi di fatto per escludere il dolo specifico: ha ritenuto provato che l’imputato avesse agito al fine esclusivo di ottenere una veste giuridica per continuare a svolgere l’attività economica, non per favorire l’evasione di terzi, in quanto era stato dichiarato fallito, era stato già condannato per bancarotta fraudolenta, si era dimesso da una precedente carica di amministratore, non riusciva ad aprire un conto corrente bancario; la s.r.l., formale emittente le fatture, aveva pagato le imposte.

La Corte di Appello, nell’accogliere l’impugnazione del Pubblico ministero, non ha indicato alcun elemento di fatto per ritenere provato il dolo specifico di favorire l’evasione dei terzi.

Si afferma apoditticamente che l’emissione delle fatture per operazioni soggettivamente inesistenti avrebbe consentito a terzi di dedurre, illegittimamente, i costi, in linea generale ed astratta, senza alcuna analisi specifica dei fatti ricostruiti in primo grado.

Inoltre, l’appello non si fonda su prove non valutate dal Tribunale ma esclusivamente sul dato normativo; che l’imprenditore ricorrente abbia agito al fine specifico di fornire fatture, per quanto soggettivamente false, per scaricare costi indebiti ex lege, è una congettura, una deduzione sfornita dell’indicazione delle prove a sostegno, soprattutto a fronte degli elementi di prova indicati in primo grado, sull’effettivo pagamento delle fatture e delle relative imposte.

In sostanza, mentre l’assoluzione si fonda sull’indicazione di una serie di circostanze di fatto, la condanna si fonda su una base cognitiva del giudice di appello che non è mutata, sull’assenza di elementi di prova a sostegno della condanna e su una lettura errata del dato normativo.

Per i giudici di legittimità la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte.

Riferimenti normativi:

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