Commento
PROCESSO TRIBUTARIO
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La ripartizione dell’onere probatorio nel perimetro dell’accertamento per presunte operazioni inesistenti

di Marco Cramarossa - AIDC Bari | 14 Dicembre 2018
La ripartizione dell’onere probatorio nel perimetro dell’accertamento per presunte operazioni inesistenti

La Corte di Cassazione interviene, ancora una volta, con due recentissime pronunce, vale a dire le sentenze n. 28659 del 9 novembre 2018 e n. 32092 del 12 dicembre 2018, a chiarire l’esatta ripartizione dell’onere della prova nell’ambito del percorso accertativo basato sul mancato riconoscimento di costi correlati a presunte operazioni soggettivamente inesistenti. I giudici di piazza Cavour, in maniera chiara e sintetica, ancorandosi peraltro ai recentissimi precedenti giurisprudenziali della stessa Corte, statuiscono che spetti all’Amministrazione finanziaria provare, anche solo in via indiziaria, l’oggettiva fittizietà del fornitore e, contestualmente, la consapevolezza del cessionario alla partecipazione ad una operazione finalizzata all’evasione d’imposta. Ciò posto, incomberà poi sul contribuente la prova contraria di aver agito senza la contestata consapevolezza e, anzi, con la diligenza massima esigibile.

Premessa

La prova e la motivazione sono aspetti fondamentali di ogni avviso di accertamento. La ripartizione dell’onere probatorio, tra Amministrazione finanziaria e contribuente, assume una particolare rilevanza specie nell’ambito di percorsi accertativi volti al disconoscimento di operazioni ritenute soggettivamente o oggettivamente inesistenti. In tale contesto, si ritiene di dover analizzare la recente sentenza della Corte di Cassazione n. 28659/2018, peraltro corroborata dalla sentenza n. 32092 pubblicata il 12 dicembre 2018, che, pur non brillando per originalità, ribadisce, proprio in ordine alla ripartizione in parola, concetti e principi consolidati sia nelle decisioni della giurisprudenza di legittimità sia, in verità a scartamento più ridotto, nelle pronunce dei giudici di merito.

 

La vicenda processuale

Il tema devoluto all’attenzione della Corte di Cassazione riguardava un accertamento per operazioni soggettivamente inesistenti, in relazione ad acquisti effettuati da una società ritenuta una mera cartiera. Il disconoscimento delle fatture passive comportava tanto il recupero dell’imposta sul valore aggiunto indebitamente detratta quanto la rideterminazione del reddito d’impresa per costi non deducibili, con ripresa a tassazione di tali componenti ai fini IRPEG ed IRAP. La mancanza documentale di alcune fatture passive, tanto pare di capire dal testo della sentenza, comportava, inoltre, il recupero della maggior IVA indebitamente detratta.

La società accertata contestava la pretesa sulla base di alcuni elementi rivelatori, a suo dire, dell’effettività, soggettiva ed oggettiva, delle operazioni commerciali intercorse:

  • transazioni effettuate a prezzi di mercato;
  • operazioni regolarmente pagate ed emergenti dalla contabilità aziendale;
  • mancanza delle fatture conseguente al furto subito nello stabilimento.

Il giudice di prime cure, ritenendo fondate le difese della contribuente, annullava l’avviso di accertamento. Il giudice di appello, invece, riformava la sentenza di primo grado, confermando il corretto operato e l’iter logico argomentativo dell’avviso di accertamento dedotto in controversia.

All’esito del giudizio di secondo grado, la società contribuente ricorreva per cassazione, ritenendo che la CTR avesse erroneamente considerato assolto l’onere della prova in capo all’Amministrazione finanziaria, la quale resisteva con proprio controricorso.

La Corte di Cassazione, V Sezione civile, con la sentenza n. 28659 pubblicata il 9 novembre 2018 , ha rigettato il ricorso, confermando il giudizio di secondo grado.

 

I principi ribaditi dalla Corte

Con la decisione in commento, i giudici di piazza Cavour, richiamando il proprio precedente giurisprudenziale contenuto nella sentenza n. 9851, pubblicata il 10 aprile 2018, hanno precisato il perimetro dell’onere probatorio in caso di accertamenti conseguenti ad operazioni ritenute soggettivamente inesistenti.

Ebbene, puntualizzano gli ermellini, in tali ipotesi, l’Amministrazione finanziaria che intenda contestare tale tipologia di operazione, inserita o meno nell’ambito di una frode carosello, “ha l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta”.

Tale consapevolezza dell’evasione, continuano i giudici, richiede che l’accertatore dimostri, in base ad elementi oggettivi e specifici (non limitati alla mera fittizietà del fornitore), che il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere, utilizzando l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale detenuta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale, ossia che vi fossero una serie di indizi idonei a far comprendere a qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto la sostanziale inesistenza del partner commerciale.

Le circostanze aventi valenza probatoria costitutiva della fattispecie riguardante le operazioni soggettivamente inesistenti vengono meglio declinate dalla precedente ridetta sentenza n. 9851/2018. In particolare, a titolo esemplificativo, si prevede esse siano:

  1. l’alterità soggettiva dell’imputazione delle operazioni, ovvero il soggetto formale non è quello reale;
  2. il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione era collocata in un perimetro destinato alla frode fiscale: in tal senso, non rendendosi necessaria la prova della partecipazione al meccanismo evasivo, essendo necessario e sufficiente, invece, che il contribuente avrebbe dovuto esserne consapevole.

L’elemento di cui al punto a) individua la prova dell’evasione fiscale, che concretizza, una volta accertata anche solo in via presuntiva, la natura di interposto o “cartiera” del soggetto emittente le fatture, ossia il falso cedente.

La Corte si spinge, altresì, a meglio definire i profili direttamente conferenti l’onere della prova incombente sull’Amministrazione. Infatti, con riguardo al tipo di prova, essa potrà ritenersi raggiunta se l’accertatore fornisca “attendibili indizi idonei ad integrare una presunzione semplice e, dunque, non occorre la prova “certa” e incontrovertibile di ogni operazione e dettaglio”. L’Amministrazione, spiega la sentenza n. 9851/2018, può assolvere al proprio onere probatorio anche mediante presunzioni, come prevedono l’art. 54, secondo comma, del D.P.R. n. 633/1972 e l’art. 39, primo comma, lett. d) del D.P.R. n. 600/1973, ed elementi indiziari (cfr. ex multis Cassazione n. 14237 del 07 giugno 2017 e Corte di Giustizia C-80/11 e C-142/11 del 21 giugno 2011, Mahagében e David).

Di talché, sono ritenuti sufficienti dai giudici, a titolo d’esempio, elementi quali:

  • la mancanza di una sede;
  • la mancanza di iscrizione presso il competente Registro delle Imprese;
  • l’omesso versamento delle imposte;
  • ovvero singole indicazioni significativamente riferibili alla sfera di conoscenza o conoscibilità dell’imprenditore.

In ordine alla prova a carico del cessionario/committente (punto b), non è ipotizzabile un automatismo probatorio a suo detrimento. Infatti, la Corte di Giustizia (C-277/14 del 22 ottobre 2015, Ppuh) ha espressamente escluso la compatibilità con il diritto unionale di una previsione di legge nazionale che consideri inesistente, in base a criteri predeterminati, il soggetto emittente la fattura e, conseguentemente, neghi al destinatario il diritto alla detrazione. Si rende, quindi, necessario tener conto della concreta vicenda e delle circostanze di volta in volta presenti.

La prova contraria che incombe sul contribuente consiste, quindi, nel dimostrare “di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad una evasione fiscale e di aver adoperato, per non essere coinvolto in una tale situazione, la diligenza massima esigibile ad un operatore accorto secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi”, così si esprime la sentenza n. 28659/2018 in commento.

Pertanto, lo specifico onere probatorio posto a carico del contribuente dovrà relazionarsi non alla vigilanza e al controllo sull’osservanza di obblighi altrui, ma alla compiuta ed adeguata osservanza di obblighi propri, seppur nei limiti di quanto dallo stesso esigibile.

In relazione alla medesima fattispecie, ossia un accertamento con cui l’Amministrazione finanziaria contestava operazioni ritenute soggettivamente inesistenti, la Cassazione è tornata ad esprimersi con la sentenza n. 32092 pubblicata il 12 dicembre 2018. La Corte ha pedissequamente ribadito i concetti espressi dalla sentenza qui in commento, accogliendo il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate. In questo specifico caso, la sentenza ha cassato, con rinvio alla CTR in composizione diversa, l’operato dei giudici di secondo grado che, in estrema sintesi, avrebbero ritenuto provato l’elemento soggettivo della buona fede del contribuente sulla base dell’archiviazione nel parallelo procedimento penale a suo carico.

 

La recente giurisprudenza di merito

Anche la giurisprudenza di merito non smette di evidenziare i principi fondamentali che devono ispirare la ripartizione dell’onere probatorio.

Infatti, nel solco interpretativo delineato, si colloca la sentenza n. 1668 del 21 luglio 2014 emessa dalla CTR della Puglia, con la quale i giudici del secondo grado di merito hanno precisato che “È ormai consolidata e costante giurisprudenza di merito e di legittimità - non solo in ambito tributario - che il ricorso ad altri accertamenti e verifiche effettuate presso terzi non integra la fattispecie di elemento noto dal quale far derivare una presunzione derivata. Tanto risponde peraltro ad una esigenza di giustizia che si configura nella impossibilità di fare carico ad un soggetto terzo delle eventuali irregolarità poste in essere da altri nell'ambito dei loro rapporti delle quali il soggetto terzo è del tutto ignaro”.

Più recentemente, anche la CTR del Veneto, con la sentenza n. 35/3/2018, ha ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento emesso in capo ad una società basato su verifiche e dichiarazioni raccolte dai titolari di altre aziende in rapporti commerciali con il presunto soggetto fraudolento.

L’Amministrazione finanziaria aveva presunto che le prestazioni fruite da tutti i clienti del soggetto verificato dovessero ritenersi inesistenti, facendo così assumere valore probatorio decisivo, quasi per pinocitosi, alla falsità desunta dalle posizioni fiscali di terzi.

I giudici, invece, in corretta applicazione della distribuzione dell’onere della prova, dopo aver correttamente riscontrato che tutte le dichiarazioni e verifiche richiamate in atti non riguardavano in alcun modo la società appellante, hanno riformato la sentenza di primo grado.

 

Conclusioni

Con la sentenza n. 28659, pubblicata in data 9 novembre 2018, confermata pienamente dalla recentissima sentenza n. 32092, pubblicata il 12 dicembre 2018, la Cassazione è tornata a ribadire come vada correttamente ripartito l’onere della prova nelle ipotesi estremamente “delicate” di disconoscimento di fatture per presunte operazioni soggettivamente inesistenti.

L’Amministrazione finanziaria ha, innanzi tutto, l’onere di provare l’oggettiva fittizietà del fornitore e la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in un disegno frodatorio. Ciò posto, al contribuente spetterà, invece, la dimostrazione di aver agito in assenza di tale consapevolezza e di aver utilizzato la diligenza massima esigibile, secondo criteri però di ragionevolezza e di proporzionalità.

La semplicità, quasi al limite del banale, di quanto appena detto tradisce, in verità, la concreta complessità che spesso si manifesta in relazione alla fattispecie oggetto del presente commento.

 

Riferimenti normativi:

 

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