Premessa
Assonime, con la Circolare n. 12 del 31 maggio 2018, commenta due recenti provvedimenti introdotti in ambito IVA, con i quali è stato regolamentato il recupero dell’imposta erroneamente esposta in fattura e addebitata dal fornitore al proprio cliente.
Tali misure sono state previste al fine di colmare alcune lacune presenti nel sistema IVA e derivanti da un insufficiente coordinamento fra le disposizioni dettate per garantire il gettito del tributo e quelle che permettono il recupero dell’imposta indebitamente esposta in fattura.
Nello specifico, la Legge Europea del 2017 (Legge del 20 novembre 2017, n. 167) ha introdotto l’art. 30-ter del D.P.R. del 26 ottobre 1972, n. 633, con il quale è stato disposto che nei casi in cui la non debenza dell’IVA risulti da accertamento definitivo - il cedente o prestatore può chiedere la restituzione all’Amministrazione finanziaria dell’imposta non dovuta entro due anni dall’avvenuta restituzione al cessionario o committente dell’importo pagato a titolo di rivalsa. La successiva Legge di Bilancio per l’anno 2018 (Legge del 27 dicembre 2017, n. 205) ha chiarito che se il cessionario o committente ha detratto tale imposta, la detrazione IVA viene comunque riconosciuta, ma è applicabile una specifica sanzione non proporzionale, compresa fra un minimo di 250 a un massimo di 10.000 euro.
Ciò premesso, al fine di agevolare la comprensione delle modifiche in parola, Assonime ha in primo luogo ripercorso il quadro normativo vigente prima delle suddette modifiche, evidenziando le difficoltà di carattere operativo dallo stesso derivanti.
Il recupero dell’IVA indebitamente applicata: la situazione ante modifiche
Al fine di tutelare l’interesse erariale, nel caso di IVA indebitamente applicata, il quadro normativo nazionale dispone all’art. 21, comma 7 del decreto IVA, che nel caso in cui il cedente o prestatore emetta fattura per operazioni inesistenti, ovvero qualora indichi nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura.
Quanto detto si traduce concretamente nel fatto che l’IVA debba essere comunque computata in liquidazione, a nulla rilevando che la stessa non sia dovuta. La medesima imposta, però, non è ammessa in detrazione in capo al cessionario/committente, il quale ne resta evidentemente inciso.
Da ciò ne derivava, prima delle modifiche in commento, che l’imposta in questione non concorreva alla formazione dell’imposta definitivamente traslata sul consumatore finale, ma veniva a costituire un onere improprio e indebito per il soggetto che aveva subito la rivalsa. L’IVA non dovuta configurava, così, un fattore che incideva negativamente sulla neutralità del tributo perché andava a gravare su uno degli operatori che concorrevano alla produzione o commercializzazione del bene o servizio destinato al consumo finale.
E ciò in violazione del principio della neutralità dell’IVA.
Al fine di ovviare a tale situazione, era possibile procedere in uno dei seguenti modi:
- emettere una nota di credito, ai sensi dell’art. 26, commi 2 e 3 del D.P.R. del 26 ottobre 1972, n. 633, nel caso in cui il fornitore si fosse accorto di aver addebitato in fattura dell’imposta non dovuta. Quindi, il fornitore aveva diritto di portare in detrazione l’imposta corrispondente alla variazione registrandola nel registro degli acquisti e il cessionario annotava la nota nel registro delle vendite. Tuttavia, tale rimedio è soggetto al vincolo temporale di un anno dalla data di effettuazione dell’operazione;
- presentare richiesta di rimborso all’Agenzia delle Entrate entro due anni dal pagamento o, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto della restituzione, richiesta che poteva essere indifferentemente presentata dal fornitore o dal cliente. Anche tale soluzione, però, creava delle difficoltà operative, considerata la scadenza biennale per presentare istanza di rimborso, termine questo, come noto, più breve rispetto a quello entro cui l’Amministrazione finanziaria può esercitare l’attività accertativa. Pertanto poteva accadere che il termine per presentare istanza di rimborso fosse già scaduto quando l’erario veniva a contestare l’erroneità imposta esposta in fattura.
Il rimborso dell’imposta non dovuta: la Legge Europea 2017
Al fine di ovviare alle suddette difficoltà operative, l’art. 8, della Legge del 20 novembre 2017, n. 167 (Legge Europea 2017) ha introdotto nell’ambito della legge IVA l’art. 30-ter che dispone, in modo espresso, quanto già desumibile dalla norma di carattere generale contenuta nell’art. 21, comma 2, del D.Lgs. del 31 dicembre 1992, n. 546.
Articolo 30-ter del D.P.R. n. 633/1972
- il soggetto passivo presenta domanda di restituzione dell’imposta non dovuta, a pena di decadenza, entro il termine di due anni dalla data di versamento della medesima ovvero, se successivo, dal giorno in cui si è verificato il presupposto della restituzione;
- nel caso di applicazione di un’imposta non dovuta ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, accertata in via definitiva dall'Amministrazione finanziaria, la domanda di restituzione può essere presentata dal cedente o prestatore entro il termine di due anni dall'avvenuta restituzione al cessionario o committente dell'importo pagato a titolo di rivalsa.
Mediante l’introduzione della previsione di cui al comma 2, quindi, il legislatore ha ovviato alla suddetta difficoltà operativa che la tempistica legata alla presentazione dell’istanza di rimborso creava prima delle modifiche.
In caso di IVA erroneamente fatturata, gli effetti negativi che possono prodursi in capo al fornitore nei casi in cui quest’ultimo abbia erroneamente applicato l’imposta in buona fede, la fattura non sia stata contestata dal suo cliente e la rivalsa sia stata regolarmente esercitata.
Infatti, fino all’entrata in vigore dell’art. 30-ter, se l’Amministrazione finanziaria contestava l’applicazione dell’imposta e l’accertamento diveniva definitivo quando già erano decorsi due anni dal versamento dell’imposta, il fornitore restava obbligato verso il cliente per la restituzione di quanto ricevuto in via di rivalsa, ma non avrebbe avuto più il diritto di chiedere il rimborso all’erario per decorrenza del termine biennale, rimanendo di conseguenza inciso del tributo.
Diversamente, con la modifica in commento, l’individuazione del termine biennale da una data successiva, precisamente dal momento in cui l’accertamento è divenuto definitivo permette di poter differire detto termine, o anche di riaprirlo, qualora il suddetto momento si verifichi quando tale termine, decorrente dalla data del versamento, fosse già decorso.
Presupposto per presentare l’istanza di rimborso è la restituzione dell’imposta all’acquirente. Secondo Assonime, l’accertamento definitivo può riguardare sia il fornitore che l’acquirente.
La detrazione dell’imposta: la Legge di Bilancio 2018
La suddetta modifica è stata affiancata a distanza di qualche mese da quella prevista dalla Legge di Bilancio per il 2018, che modificando l’art. 6, comma 6, del D.Lgs. n. 471 del 18 dicembre 1997, ha disposto che in caso di applicazione dell’imposta in misura superiore a quella effettiva, erroneamente assolta dal cedente o prestatore, fermo restando il diritto del cessionario o committente alla detrazione, l’anzidetto cessionario o committente è punito con la sanzione amministrativa compresa fra 250 euro e 10.000 euro. La restituzione dell’imposta è esclusa qualora il versamento sia avvenuto in un contesto di frode fiscale. Viene in questo modo superato il divieto alla detrazione dell’IVA erroneamente esposta in fattura.
Da quanto detto ne deriva che se l’acquirente detrae l’imposta, non gli sarà consentito né di chiedere il rimborso all’erario né - secondo Assonime - di chiedere al fornitore la restituzione dell’imposta assolta in via di rivalsa con azione civilistica.
Sotto il profilo oggettivo, la norma in commento, facendo esclusivo riferimento “all’IVA erroneamente esposta in fattura” ossia a quella di un’imposta indicata in misura superiore rispetto a quella dovuta, non sembra almeno, sotto il profilo letterale, non ricomprendere anche le ipotesi per le quali l’imposta erroneamente indicata non è dovuta, perché, ad esempio l’operazione in questione è esente o non imponibile, o addirittura esclusa.
Si tratta, a parere di Assonime, di un punto estremamente delicato poiché influisce in modo determinante sull’ambito oggettivo di applicazione della nuova disposizione pertanto sarebbe quanto mai opportuno che l’Agenzia delle Entrate facesse conoscere il proprio orientamento al riguardo.
Resta ferma la possibilità per il cessionario o committente di non avvalersi della nuova disposizione e adempiere, in caso di ricevimento di fattura errata, alla regolarizzazione prevista dall’art. 6, comma 8, del D.Lgs. n. 471 del 18 dicembre 1997. In tal caso non sarà applicata alcuna sanzione
Riferimenti normativi:
- Assonime, Circolare 31 maggio 2018, n. 12;
- D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 30-ter.
IVA non dovuta: il punto di Assonime
di Roberta De Pirro | 4 Giugno 2018
Assonime, con la Circolare n. 12 del 31 maggio 2018, commenta le disposizioni introdotte in materia di rimborso dell’IVA non dovuta e detrazione della stessa. Intervenendo in ambito IVA, prima la Legge Europea del 2017 e, a pochi mesi di distanza, la Legge di Bilancio 2018 hanno regolamentato la disciplina da seguire in caso di IVA erroneamente esposta in fattura sia ai fini del rimborso della stessa per il fornitore che di detrazione della medesima per il cessionario/committente. Assonime, con specifico riferimento all’ambito applicativo della previsione che ne ammette la detrazione, rileva che la stessa non dovrebbe trovare applicazione solo con riferimento alle ipotesi di una maggiore IVA indicata in fattura rispetto a quella effettivamente dovuta, ma anche alle ipotesi di operazioni esenti, non imponibili o escluse da IVA ed erroneamente assoggettate al tributo.
Premessa
Assonime, con la Circolare n. 12 del 31 maggio 2018, commenta due recenti provvedimenti introdotti in ambito IVA, con i quali è stato regolamentato il recupero dell’imposta erroneamente esposta in fattura e addebitata dal fornitore al proprio cliente.
Tali misure sono state previste al fine di colmare alcune lacune presenti nel sistema IVA e derivanti da un insufficiente coordinamento fra le disposizioni dettate per garantire il gettito del tributo e quelle che permettono il recupero dell’imposta indebitamente esposta in fattura.
Nello specifico, la Legge Europea del 2017 (Legge del 20 novembre 2017, n. 167) ha introdotto l’art. 30-ter del D.P.R. del 26 ottobre 1972, n. 633, con il quale è stato disposto che nei casi in cui la non debenza dell’IVA risulti da accertamento definitivo - il cedente o prestatore può chiedere la restituzione all’Amministrazione finanziaria dell’imposta non dovuta entro due anni dall’avvenuta restituzione al cessionario o committente dell’importo pagato a titolo di rivalsa. La successiva Legge di Bilancio per l’anno 2018 (Legge del 27 dicembre 2017, n. 205) ha chiarito che se il cessionario o committente ha detratto tale imposta, la detrazione IVA viene comunque riconosciuta, ma è applicabile una specifica sanzione non proporzionale, compresa fra un minimo di 250 a un massimo di 10.000 euro.
Ciò premesso, al fine di agevolare la comprensione delle modifiche in parola, Assonime ha in primo luogo ripercorso il quadro normativo vigente prima delle suddette modifiche, evidenziando le difficoltà di carattere operativo dallo stesso derivanti.
Il recupero dell’IVA indebitamente applicata: la situazione ante modifiche
Al fine di tutelare l’interesse erariale, nel caso di IVA indebitamente applicata, il quadro normativo nazionale dispone all’art. 21, comma 7 del decreto IVA, che nel caso in cui il cedente o prestatore emetta fattura per operazioni inesistenti, ovvero qualora indichi nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura.
Quanto detto si traduce concretamente nel fatto che l’IVA debba essere comunque computata in liquidazione, a nulla rilevando che la stessa non sia dovuta. La medesima imposta, però, non è ammessa in detrazione in capo al cessionario/committente, il quale ne resta evidentemente inciso.
Da ciò ne derivava, prima delle modifiche in commento, che l’imposta in questione non concorreva alla formazione dell’imposta definitivamente traslata sul consumatore finale, ma veniva a costituire un onere improprio e indebito per il soggetto che aveva subito la rivalsa. L’IVA non dovuta configurava, così, un fattore che incideva negativamente sulla neutralità del tributo perché andava a gravare su uno degli operatori che concorrevano alla produzione o commercializzazione del bene o servizio destinato al consumo finale.
E ciò in violazione del principio della neutralità dell’IVA.
Al fine di ovviare a tale situazione, era possibile procedere in uno dei seguenti modi:
Il rimborso dell’imposta non dovuta: la Legge Europea 2017
Al fine di ovviare alle suddette difficoltà operative, l’art. 8, della Legge del 20 novembre 2017, n. 167 (Legge Europea 2017) ha introdotto nell’ambito della legge IVA l’art. 30-ter che dispone, in modo espresso, quanto già desumibile dalla norma di carattere generale contenuta nell’art. 21, comma 2, del D.Lgs. del 31 dicembre 1992, n. 546.
Articolo 30-ter del D.P.R. n. 633/1972
- il soggetto passivo presenta domanda di restituzione dell’imposta non dovuta, a pena di decadenza, entro il termine di due anni dalla data di versamento della medesima ovvero, se successivo, dal giorno in cui si è verificato il presupposto della restituzione;
- nel caso di applicazione di un’imposta non dovuta ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, accertata in via definitiva dall'Amministrazione finanziaria, la domanda di restituzione può essere presentata dal cedente o prestatore entro il termine di due anni dall'avvenuta restituzione al cessionario o committente dell'importo pagato a titolo di rivalsa.
Mediante l’introduzione della previsione di cui al comma 2, quindi, il legislatore ha ovviato alla suddetta difficoltà operativa che la tempistica legata alla presentazione dell’istanza di rimborso creava prima delle modifiche.
In caso di IVA erroneamente fatturata, gli effetti negativi che possono prodursi in capo al fornitore nei casi in cui quest’ultimo abbia erroneamente applicato l’imposta in buona fede, la fattura non sia stata contestata dal suo cliente e la rivalsa sia stata regolarmente esercitata.
Infatti, fino all’entrata in vigore dell’art. 30-ter, se l’Amministrazione finanziaria contestava l’applicazione dell’imposta e l’accertamento diveniva definitivo quando già erano decorsi due anni dal versamento dell’imposta, il fornitore restava obbligato verso il cliente per la restituzione di quanto ricevuto in via di rivalsa, ma non avrebbe avuto più il diritto di chiedere il rimborso all’erario per decorrenza del termine biennale, rimanendo di conseguenza inciso del tributo.
Diversamente, con la modifica in commento, l’individuazione del termine biennale da una data successiva, precisamente dal momento in cui l’accertamento è divenuto definitivo permette di poter differire detto termine, o anche di riaprirlo, qualora il suddetto momento si verifichi quando tale termine, decorrente dalla data del versamento, fosse già decorso.
Presupposto per presentare l’istanza di rimborso è la restituzione dell’imposta all’acquirente. Secondo Assonime, l’accertamento definitivo può riguardare sia il fornitore che l’acquirente.
La detrazione dell’imposta: la Legge di Bilancio 2018
La suddetta modifica è stata affiancata a distanza di qualche mese da quella prevista dalla Legge di Bilancio per il 2018, che modificando l’art. 6, comma 6, del D.Lgs. n. 471 del 18 dicembre 1997, ha disposto che in caso di applicazione dell’imposta in misura superiore a quella effettiva, erroneamente assolta dal cedente o prestatore, fermo restando il diritto del cessionario o committente alla detrazione, l’anzidetto cessionario o committente è punito con la sanzione amministrativa compresa fra 250 euro e 10.000 euro. La restituzione dell’imposta è esclusa qualora il versamento sia avvenuto in un contesto di frode fiscale. Viene in questo modo superato il divieto alla detrazione dell’IVA erroneamente esposta in fattura.
Da quanto detto ne deriva che se l’acquirente detrae l’imposta, non gli sarà consentito né di chiedere il rimborso all’erario né - secondo Assonime - di chiedere al fornitore la restituzione dell’imposta assolta in via di rivalsa con azione civilistica.
Sotto il profilo oggettivo, la norma in commento, facendo esclusivo riferimento “all’IVA erroneamente esposta in fattura” ossia a quella di un’imposta indicata in misura superiore rispetto a quella dovuta, non sembra almeno, sotto il profilo letterale, non ricomprendere anche le ipotesi per le quali l’imposta erroneamente indicata non è dovuta, perché, ad esempio l’operazione in questione è esente o non imponibile, o addirittura esclusa.
Si tratta, a parere di Assonime, di un punto estremamente delicato poiché influisce in modo determinante sull’ambito oggettivo di applicazione della nuova disposizione pertanto sarebbe quanto mai opportuno che l’Agenzia delle Entrate facesse conoscere il proprio orientamento al riguardo.
Resta ferma la possibilità per il cessionario o committente di non avvalersi della nuova disposizione e adempiere, in caso di ricevimento di fattura errata, alla regolarizzazione prevista dall’art. 6, comma 8, del D.Lgs. n. 471 del 18 dicembre 1997. In tal caso non sarà applicata alcuna sanzione
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